Amerigo Verardi
Hippie Dixit
The Prisoner Rec
Un inizio di suoni lontani e filtrati, un paesaggio sonoro di vago sapore nordafricano. Poi un giro di accordi di chitarra elettrica che comincia, lento: è più o meno il giro di “ Down by the River” di Neil Young (e di, probabilmente, un altro centinaio di canzoni).
È all’incirca a questo punto, dopo il primo minuto di “L’uomo di Tangeri”, primo pezzo del nuovo disco di Amerigo Verardi, che si ha l’impressione di essere veramente entrati nel “Sogno di un hippie” – per rubare il titolo ancora a Neil Young.
Amerigo Verardi da Brindisi è quello che i comunicati stampa di solito definiscono “outsider” per mancanza di alternative valide: trent’anni di carriera festeggiati con questo lavoro, da solo, sotto pseudonimo e in band (Allison Run, Betty’s Blues, Lula …). Trent’anni di collaborazioni “sotterranee” e “alternative”. Per festeggiare l’anniversario di un “outsider”, non c’è nulla di meglio di un disco da outsider: Hippie Dixit è un disco doppio, un viaggio psichedelico a base di freak-pop e musica cosmica con tutti gli ingredienti giusti nel posto giusto: chitarre acide, spazi infiniti di echi e riverberi, percussioni etniche (poca batteria, molti djembé e darabouke), punte di bouzouki, field recording e effetti assortiti; un missaggio stereo come se ne ascoltano pochi.
I testi rincorrono un Mediterraneo molto diverso da quello confortevole e “pugliese” a cui siamo abituati: un Mediterraneo fricchettone e psichedelico, che va dal Marocco all’India, percorre il sud Italia dei briganti per finire a Brindisi, “ai terminali della via Appia” – e la canzone con quel titolo, che chiude il primo CD, è forse il momento migliore del disco (insieme all’inno freak “Le cose non girano più”). A tratti Verardi sembra seguire le orme – se dobbiamo trovare per forza un precedente italiano – di Claudio Rocchi, unico dei pochi ad aver tenuto insieme un immaginario di questo genere con la tradizione dei cantautori e con testi in italiano.
Uscito a fine anno, il disco di Amerigo Verardi è senz’altro uno dei titoli italiani migliori del 2016 appena finito, anche perché così gioiosamente diverso – per la qualità del suono, per le idee di arrangiamento, per la scelta degli strumenti – da tutto quello che si ascolta nel gran calderone del rock alternativo italiano. È un disco che richiede il suo tempo (alla fine dei due CD il cronometro si ferma a oltre 1 ora e 40 minuti di musica…), e che dunque dovrebbe rimanere nel tempo più di un paio di ascolti distratti sull’onda della promozione – e se lo meriterebbe.