Alla ricerca dei talenti di domani

Marc Clémeur fa un bilancio della propria esperienza all’Opéra national du Rhin che lascia alla fine della stagione

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Marc Clémeur (foto Steve-Przybilla)

Una vita (artistica) da mediano: la sua reputazione di manager operistico, Marc Clémeur, belga di Anversa, l’ha costruita prima all’Opera delle Fiandre e quindi all’Opéra national du Rhin (OnR), due organizzazione liriche di taglia media, che hanno raggiunto un profilo di distinzione nel panorama internazionale grazie al suo lavoro. Il suo talento? Quello di trasformare mezzi ridotti in punti di forza: originalità nelle proposte artistiche e spinta a ricercare e a investire sui talenti di domani. Dopo otto stagioni, la prossima estate Marc Clémeur lascerà l’Opéra national du Rhin, un’azienda con un bilancio di circa 21 milioni di euro, nella quale 240 dipendenti fissi e circa 600 collaboratori occasionali assicurano 223 aperture di sipario in questa stagione nelle tre scene di Strasburgo, Mulhouse e Colmar. Il cartellone operistico, aperto con la prima mondiale di “Mririda” di Ahmed Essyad, contempla altri nove titoli dal barocco al contemporaneo per un totale di 70 serate rivolte a un pubblico variegato, di cui Clémeur va molto fiero. Per fare un bilancio della sua attività abbiamo incontrato Marc Clémeur a Strasburgo, nel suo ufficio affacciato su Place Broglie davanti al teatro dove si stanno mettendo a punto gli ultimi dettagli per la ripresa de “La piccola volpe astuta” di Leoš Janáček, uno degli spettacoli del fortunato ciclo affidato a Robert Carsen che considera uno dei risultati più significativi della sua gestione.

Questa è la sua ultima stagione all’OnR: qual’è stata la maggiore sfida che ha dovuto affrontare in questi anni?

«Una cosa di cui non ci si rende abbastanza conto è la difficoltà logistica a gestire l’OnR: si tratta di una struttura priva di teatro, priva di orchestra, distribuita su tre città e con un budget che è un decimo di quello dell’Opéra di Parigi (cioè 210 milioni di euro contro i nostri 21!). Ad Anversa, dove sono stato direttore generale per 19 anni, decidevo di fare un’opera di Wagner, decidevo chi coinvolgere: tale direttore, tale regista, ecc. Qui non è possibile perché, se vogliamo fare un’opera di Wagner, occorre che l’Orchestre Philharmonique di Strasburgo sia libera (quella di Mulhouse ha dimensioni troppo ridotte per Wagner), il che si complica anche di più quando dobbiamo fare i conti con la disponibilità di un certo direttore o di un regista o di un qualche interprete. Per finire, le sale dove presentiamo le nostre produzioni, in particolare a Colmar e Mulhouse, vanno condivise con numerose altre compagnie teatrali. Sul piano logistico si tratta del teatro più complicato di tutta la Francia. Nondimeno, credo che, grazie ai miei eccellenti collaboratori, siamo riusciti a gestire bene questa situazione e a allestire delle stagioni di tutto rispetto.»

Come descriverebbe il carattere di questo teatro?

«Sono convinto che l’idea di un programma deve sempre partire dal territorio nel quale si trova il teatro, cioè dalla sua collocazione geografica: qui siamo a circa 500 km da Parigi, con cui comunque esistono dei collegamenti molto rapidi grazie al TGV, e a soli 60 km da Baden-Baden, 80 km da Karlsruhe, 80 km da Friburgo e, quando gli spettacoli si svolgono a Mulhouse, a soli 25 km da Basilea. Ciò significa che siamo in una regione davvero biculturale e del resto l’Alsazia è una regione storicamente tedesca, come denuncia il nucleo antico di Strasburgo che è quello di una vecchia cittadina medioevale tedesca divenuta francese soltanto in epoca più recente. Da nativo di un paese biculturale come il Belgio, è quello che amo in questa regione e che cerco di trasmettere anche nella programmazione dell’OnR, proponendo programmi germanici e latini allo stesso tempo. Per questo ho voluto sopratitoli in due lingue (francese e tedesco) negli spettacoli dell’OnR, una pratica molto comune nel mio paese. Questa natura biculturale si riflette anche in una certa apertura mentale del pubblico. Per fare un esempio, nella mia prima stagione qui avevamo programmato “La vie parisienne” seguita da “Götterdämmerung”: i biglietti di quest’ultima sono stati venduti più rapidamente di quelli dell’operetta francese, cosa impensabile in una qualsiasi altra città francese. È vero che il nostro pubblico ha un grande interesse per il repertorio tedesco e per la musica contemporanea e questo è un punto di forza per l’OnR che altre grandi città francesi, come Lione, Tolone o Marsiglia, sicuramente non hanno o hanno meno.»

Come ha sfruttato questa apertura mentale nei suoi programmi per l’OnR?

«In una programmazione sicuramente non facile, con un ciclo Janáček, grandissimo compositore ma ancora non fra i più popolari e con un’opera inaugurale contemporanea mai eseguita in Francia, come è stato per “Riccardo III” di Giorgio Battistelli, “Doctor Atomic” di John Adams, “Quai Ouest” di Régis Campo, “Penthesilea” di Pascal Dusapin e quest’anno con “Mririda” di Ahmed Essyad. Abbiamo anche proposto alcune opere francesi uscite dal repertorio e quindi oggi praticamente sconosciute come “Ariane et Barbe-Bleue” di Paul Dukas o “Pénélope” di Gabriel Fauré o “Le Roi Arthus” di Ernest Chausson. Queste proposte sono certamente delle sfide per il pubblico, che ha comunque risposto in maniera positiva e io ne sono felice.»

“Penthesilea” di Pascal Dusapin (2015)

Il fatto di avere così tanti teatri lirici concorrenti a distanze relativamente contenute, pone dei problemi all’OnR? «In realtà no. È piuttosto un vantaggio. Da quando abbiamo introdotto i sopratitoli in due lingue abbiamo un 20% di pubblico germanofono, che proviene da oltre Reno o dalla Svizzera. E per questo motivo abbiamo aggiunto nel logo della OnR la dicitura “Opéra de l’Europe”, perché lavoriamo davvero su tre paesi e siamo in grado di attrarre pubblico da tre paesi. In questo senso possiamo davvero considerarci ambasciatori della Francia anche oltre Reno. È vero che Baden-Baden è molto vicina, ma non produce che tre allestimenti d’opera a stagione dunque non si può davvero paragonare alle nostre 160 aperture di sipario fra opera, recital e balletto a stagione.»

Uno spettacolo o un’iniziativa di cui lei è particolarmente orgoglioso?

«Direi sicuramente il ciclo Janáček realizzato da un regista di punta come Robert Carsen, impegnato in questi giorni nelle prove di un nuovo allestimento del “Cavaliere della Rosa” al Covent Garden con Renée Fleming. Carsen firma allestimenti a Londra, a New York, a Milano e … a Strasburgo! E ciò grazie all’antica amicizia che ci lega. Per l’Opéra du Rhin ha realizzato “Jenufa” nel 2010, “Kat’a Kabanová” nel 2012 e “L'affare Makropoulos” (ripreso nella scorsa stagione, dopo essere stato in vari teatri fra cui anche Venezia), “La piccola volpe astuta nel 2013 e ripreso in questi giorni (visto anche al Regio di Torino), e “Da una casa di morti” nel 2013. Un altro fatto non troppo noto che mi rende particolarmente orgoglioso è che l’OnR ha oggi il pubblico più giovane in Francia e uno dei più giovani in Europa, con una presenza di giovani al di sotto dei 26 anni intorno al 30%. È un numero elevatissimo al quale siamo arrivati anche sviluppando una programmazione d’opera per l’infanzia e i giovani. Io lo considero un grande risultato.»

“Kat’a Kabanová” di Leoš Janáček all’OnR (2012)

“La piccola volpe astuta” di Leoš Janáček all’OnR (2016)

Successi a parte, ha qualche rimpianto? Qualcosa che non è riuscito a realizzare?

«Guardi (indica l’edificio dell’opera davanti alle finestre del suo ufficio, ndr): questa vecchia “baracca” qui accanto. Una bella sala all’italiana, anche se in molti a Strasburgo pensano che non lo sia, e una delle ragioni per cui i tedeschi amano venire all’OnR. Quando sono arrivato a Strasburgo, si discuteva di costruire una nuova sala sulla riva del Reno, a poco meno di 3 km dal centro della città. Accantonato il progetto, si è capito che occorreva comunque restaurare questo teatro ma non si sono mai trovati i 40 milioni di euro necessari ai lavori (senza fare polemiche, se ne sono spesi circa 600 a Parigi per la nuova sala della Philharmonie!). Non sono certo il primo direttore dell’OnR che si è battuto per il restauro dell’edificio senza risultato, ma certamente è qualcosa che metterei fra le mie cose non riuscite.»

E fra i progetti musicali ci sono progetti che non è riuscito a fare o che avrebbe fatto diversamente?

«No, direi che nel complesso sono riuscito a realizzare tutto quello che volevo, salvo talvolta non riuscire ad avere un certo direttore o un regista o un cantante perché già impegnati ma fa parte dei rischi del mestiere. Chiaramente in un teatro come questo non è possibile lavorare con le grandi star, ma a me interessa di più lavorare per le star di domani e per questo mio interesse sono spesso membro di giurie di concorsi di canto o di audizioni.»

Da questo punto di vista lei può sicuramente rivendicare molte scoperte. Vuol fare dei nomi?

«Le scoperte fatte ad Anversa 25 anni oramai sono delle star affermate, come Nina Stemme, Fabio Armiliato, Petra Lang, Christopher Ventris, Falk Struckman. Cantavano tutti in piccoli teatri e ad Anversa ho offerto loro la possibilità di debuttare in ruoli importanti. A Strasburgo, non ho la sfera di cristallo e non so dirle chi sarà la star di domani ma, senza far torto agli altri, il mezzosoprano Eve Maude Hubeaux, uscita dalla nostra Opéra Studio, sta acquistando rapidamente popolarità e nella prossina stagione sarà Brangäne nel “Tristan” e Eboli nel “Don Carlos”.»

Fra le sue scoperte c’è anche un “giovane regista” di nome Robert Carsen … «Robert Carsen era appena arrivato in Europa quando gli affidai il ciclo Puccini ad Anversa. Sono stato uno dei primi a intuirne il talento e le qualità straordinarie. Carsen è moderno nell’estetica ma rispettoso delle intenzioni originali di librettista e compositore: è un metodo al quale attribuisco grande importanza. La bravura di Carsen è soprattutto nella capacità di elaborare un’estetica in grado di parlare a un pubblico contemporaneo. È quello che ha fatto fin dall’inizio della sua carriera e che l’ha portato nei maggiori teatri d’opera internazionali. L’opera non può assolutamente essere “realistica”. Non ha niente di realistico, se non per altro per il fatto che le persone non parlano ma cantano. Per questo motivo personalmente detesto gli allestimenti storicizzanti, iperrealistici, che si vedono spesso nei paesi latini. La capacità straordinaria di Carsen è di riuscire a non diventare mai naturalista pur rispettando le leggi dell’opera e allo stesso tempo riuscendo a essere moderno. E questa capacità assicura alle sue produzioni una longevità straordinaria.»

Pare di capire che lei non ami troppo l’opera come spesso si fa in Italia, giusto?

«Adoro l’Italia, adoro la sua cucina, adoro il suo paesaggio, il vino, il clima, insomma tutto. Ma l’opera … Non capisco come gli italiani possano avere un tale buon gusto per la moda e il design, dove sono davvero all’avanguardia, e invece nell’opera amino la paccottiglia, il “vieux jeux”, il decrepito perché, come si sente spesso dire, “bisogna rispettare la tradizione”. Per non dire che nei teatri italiani mi capita spessissimo di vedere delle vecchie signore impellicciate ma pochissimi giovani agli spettacoli. L’opera non è per nulla un genere morto, ma occorre farla per un pubblico di oggi. In questo difettano molto spesso i teatri italiani, con l’eccezione forse della Scala e in parte della Fenice.»

In una sua intervista recente lei ha detto: “L’aspetto teatrale è oggi fondamentale se si vuole che il pubblico risponda, più che il colore di tale basso o la precisione del soprano.” Si potrebbe pensare che l’opera per lei è fondamentalmente un fatto teatrale più che musicale. È così?

«No, la musica resta fondamentale quanto lo è la dimensione teatrale, soprattutto se vogliamo attirare nuovo pubblico. Ho detto quella frase pensando a quella significativa presenza di giovani che riusciamo ad attirare all’OnR. I giovani oggi hanno una cultura fondamentalmente visuale. Ancora più che nel passato è quindi cruciale che quello che si vede sulla scena possa attirare il loro interesse, più forse che la precisione delle voci.»

Questa è la sua ultima stagione da direttore generale. Ci sarà ancora opera nel futuro di Marc Clémeur?

«Ho già detto del mio interesse per le giovani voci: è su questo che vorrei continuare a lavorare a partire dalla prossima estate quando lascerò la direzione dell’OnR a Eva Kleinitz. C’è un numero crescente di teatri che domandano consiglieri per il casting e questa è davvero una mia passione. Nel mio futuro vorrei soprattutto dedicarmi a questa attività. Dopo 28 anni ininterrotti di direzione di teatri d’opera (e non tutti i miei colleghi possono vantare una tale longevità!) il mio futuro lo immagino a cercare le voci di domani.»

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