Con la morte del pianista Cecil Taylor, all’età di 89 anni, se ne va una delle figure più originali della musica afroamericana di sempre.
Strumentista dotatissimo, sin dalla fine degli anni Cinquanta Taylor aveva sviluppato un linguaggio originale in cui le spigolosità percussive del pianoforte – su cui già Thelonious Monk aveva iniziato a costruire una straordinaria ipotesi lessicale – venivano portate alle estreme conseguenze. Cascate di note, cluster, un apparente tuffo nel disordine che trovava echi sia nelle coeve ricerche della musica contemporanea che nella urticante necessità nera di esprimere (anche politicamente) un corpo e un suono.
Perché in fondo, al netto di ogni puntigliosa analisi, si può ridurre (se di riduzione si può parlare) a questi due termini, “corpo” e “suono”, la visione di libertà e di unicità di Taylor. Una musica che danza, che letteralmente danza, che si destruttura e ristruttura in onde sconvolgenti di improvvisazione.
Da solo, o circondato da musicisti fedeli e in sintonia con questo viaggio sublime (come il sassofonista Jimmy Lyons, i batteristi Sunny Murray e Andrew Cyrille, per dire i primi che vengono chiaramente alla mente), Taylor ha attraversato oltre cinquant'anni di musica, spesso mal compreso da quello stesso mondo del jazz che in fondo è stato il suo terreno di confronto, tra repulsioni e illuminanti innamoramenti, incurante di mode o aspettative, teso inesorabilmente a esprimere la sua dirompente fragilità, la sua umana esplosività.
Per ricordarlo abbiamo scelto per voi dieci dischi da (ri) ascoltare affidandosi completamente al flusso dell’energia.
1. The World Of Cecil Taylor (Candid, 1960)
In quartetto con Archie Shepp, Buell Neidlinger (anch’egli recentemente scomparso) e Denis Charles, il disco fotografa il momento di transizione tra le strutture jazzistiche del tempo e la radicalità dell’approccio a venire. Buffo come un disco che all’epoca suonava per molti “inascoltabile” sia oggi tra le cose più fruibili della discografia di Taylor.
2. Nefertiti, The Beautiful One Has Come (Revenant, 1962)
Prezioso documento dell’attività di Taylor in una prima metà degli anni Sessanta poverissima di testimonianze, questo strepitoso live al Cafè Montmartre di Copenhagen in trio con Jimmy Lyons e Sunny Murray è un manuale di fantasia e di libertà. Variamente ristampato con differenti titoli.
3. Unit Structures (Blue Note, 1966)
Alle prese con l’architettura di una formazione più ampia (qui ci sono Eddie Gale alla tromba, Lyons e Ken McIntyre al sax alto, Henry Grimes e Alan Silva al contrabbasso e uno stellare Andrew Cyrille dietro i tamburi), Taylor allestisce un visionario affresco in cui vengono esplorate innumerevoli combinazioni di strumenti e energie.
4. Conquistador (Blue Note, 1966)
Registrato pochi mesi dopo Unit Structures, anche Conquistador (che vede la medesima sezione ritmica, ma solo un ispiratissimo Lyons e il lunare Bill Dixon alla tromba come fiati) è una pietra miliare della discografia di Taylor e del jazz degli anni Sessanta. Intensità e bellezza senza freni.
5. The Great Concert Of Cecil Taylor (Prestige, 1969)
Sotto le stelle di luglio della Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence in Provenza, un concerto che è entrato nella storia, con due dioscuri del sax più libero come Sam Rivers e Jimmy Lyons e il solito, inesauribile, Cyrille alla batteria. Onde del destino: obbligatorio farsi travolgere!
6. Indent (Arista Freedom, 1973)
Ed eccolo finalmente in rumorosa solitudine, Taylor. Questo recital, non il primissimo (c’è il live italiano del 1968 pubblicato poi come Praxis) del 1973 è un gioiello di stratificazione percussiva.
7. Silent Tongues (Arista Freedom, 1974)
Altro solo imperdibile, quello registrato al Festival di Montreux nel 1974. Invenzione e passione, imprevedibilità e magma sonoro. Decisamente imprescindibile.
8. It Is In The Brewing Luminous (Hat Hut, 1983)
Fenomenale live newyorkese del 1980, con Lyons, Silva, Murray, ma anche il violino di Ramsey Ameen e Jerome Cooper a rafforzare le percussioni, è un disco che dischiude sovente, nelle crepe della densa materia, squarci di un lirismo commovente.
9. Historic Concerts (Soul Note, 1984)
L’incontro tra il pianoforte di Taylor e la batteria di Max Roach (registrato alla Columbia University, nel dicembre del 1979, senza alcuna prova né precedente collaborazione) non poteva che generare imprevedibilità e esplosioni di bellezza. Il più percussivo dei pianisti e il più melodico dei batteristi in libertà!
10. Looking (Berlin Version) (FMP, 1990)
Il rapporto di Taylor con il jazz creativo europeo è stato complesso (data la personalità non facile del pianista), ma foriero di riconoscimento e scambi. In più occasioni Taylor ha inciso, suonato, incrociato le proprie idee con quelle di musicisti del Vecchio continente (anche con l’Italian Instabile Orchestra, in un disco, The Owner of the River Bank, registrato per la Enja all’inizio degli anni Duemila).
Tra le tante esperienze europee, segnaliamo i dischi registrati nel 1989 a Berlino (in solo, trio e quintetto) intitolato Looking (Berlin Version) e vi lasciamo con questo bel documento, sempre berlinese e risalente al 1983, che ben racconta la intermedialità e la performatività delle performance del pianista.