Fuggire sì, ma dove? In questi giorni irreali di tempo nuovamente sospeso, la musica che gira in rete torna a essere il più prezioso dei beni-rifugio. Un altrove a portata di clic, uno spazio al di fuori dello spazio nel quale esercitare il sacrosanto diritto all'evasione. Disertare la realtà. Subito, adesso. Non c'è motivo per restare. Meglio rifugiarsi nei paradisi (più o meno) artificiali di una serie di dischi che, da un angolo all'altro di un pianeta tristemente distanziato, sembrano spalancare le porte della percezione a infiniti mondi possibili. Brasile, Giappone, Norvegia, Stati Uniti e ritorno a casa: Bandcamp è la terra promessa.
Disertare la realtà. Subito, adesso. Non c'è motivo per restare.
Kiko Dinucci – Rastilho (Mais Um)
A chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il meglio della musica brasiliana, non può non essere capitato di inciampare qua o là nel nome di Kiko Dinucci. Chitarrista geniale e arrangiatore visionario, lo si può trovare praticamente ovunque a San Paolo e dintorni. Dalle tracce lasciate nel sottobosco underground con i Metá Metá e i Passo Torto, agli incroci pericolosi con Tom Zé; dalle acrobazie avant-jazz nei New Brazilian Funk, ai servigi resi alla divina Elza Soares; dalle collaborazioni extra lusso con Jards Macalé e Criolo, al passaggio dalle parti di Rob Mazurek: il campionario delle piroette è praticamente infinito.
Rastilho è il quarto disco e mezzo a suo nome, e arriva tre anni dopo le sventagliate post-tropical-punk di Cortes Curtos (recuperatelo, non ve ne pentirete). Stavolta però niente distorsioni sfrigolanti e salamelecchi ai Fugazi: gli ardori rock iniziano e finiscono con la copertina, marcescibile omaggio a Power, Corruption & Lies dei New Order. Per il resto è subito un sentirsi a casa, tra rimandi espliciti all'afro-samba di Baden Powell e Vinicius De Moraes (“Olodè”, “Vida Mansa”), assonanze tutto cuore con Gilberto Gil e Jorge Ben (“Febre do Rato”, “Veneno”, “Rastilho”) e contorte radici nere che affondano nella storia ancestral-musicale del folklore brasiliano. Un disco soprattutto di chitarra: sei corde di nylon, dita veloci e precise, batida implacabile; le onde ipnotiche del mare di Bahia (“Foi Batendo o Pé Na Terra”) e i riti esoterici del Candomblé (“Exu Odara”, “Tambú e Candongueiro”), l'umile inchino a Glauber Rocha (con tanto di comparsata della figlia Ava in “Dadá”) e scampoli di Morricone (“Marquito”). Magnifico.
Tenniscoats – Waltz for Dubby (7 e.p.)
Da San Paolo a Tokyo. Una trentina di ore tra scali e voli per far visita alla piccola officina dei Tenniscoats, al secolo Takashi e Saya Ueno. Che in Waltz for Dubby, titolo che svela quasi tutto su esiti e intenzioni dell'ennesimo zuccherino-pop, si misurano con una serie di celeberrimi standard jazz. Alla loro maniera, ovviamente: sax contralto, melodica e xilofono, spifferi di tromba, chitarra acustica, voci e tastierine, Yasuhiko Tachibana al contrabbasso e la consueta attitudine minimal-sognante da bimbi-giocattolai.
Il risultato? Si va da una “Take the A Train” che sa di orsetti gommosi e cavallini a dondolo, alla più delicata delle “Waltz for Debby”; dai quasi otto minuti dell'imprendibile e fluttuante “Mood Indigo”, all'unisono sax-melodica che apre la strada alla fragilissima voce di Saya in “Fly Me to the Moon”; dalle capriole spensierate di “Monk's Mood” e “Pannonica”, alle carezze di “Stella By Starlight” e “My Funny Valentine”. Un disco da divano, coperta di lana tirata su fino al collo e cioccolata calda; improvvisazione quanto basta (poca, il giusto), sogni di cartapesta e al risveglio un sorriso ebete stampato sulle labbra.
Strings & Timpani – Voice & Strings & Timpani (Hubro)
Direzione Norvegia per l'inedita versione triplicata del duo Strings & Timpani, creatura del chitarrista Stephan Meidell e del batterista Øyvind Hegg-Lunde. Della partita, oltre agli omologhi Stein Urheim (chitarra, elettronica e langeleik, salterio a bordoni del folklore nordico) e Kim Åge Furuhaug (batteria e percussioni, già ascoltato nei Super Heavy Metal), le voci mutanti e portanti di Eva Pfitzenmaier e Mari Kvien Brunvoll (che assieme a Hegg-Lunde fa parte di un'altra band del catalogo Hubro: i Building Instrument). «Abbiamo semplicemente aperto le nostre teste e lasciato che venisse fuori tutto quello che c'era dentro», scrivono i titolari del progetto presentando il disco. Ovvero: psichedelia pulsante, tribalismi assortiti, elettronica in abbondanza, densi strati di ambient e un'obliqua attrazione per il pop.
Un bel casino? Solo sulla carta. Perché poi all'ascolto la quadratura è perfettamente rotonda. Come nell'iniziale “Cashmere”, che dopo un esordio nebbioso, fatto di echi sinistri e arpeggi metallici, decolla sulle ali di una chitarra slide, in un turbine di loop e percussioni; o ancora nella smorfiosa “Escargot”, che si spinge fino alle soglie dell'easy listening mischiando nel testo francese e inglese; oppure nel delirio ritmico della travolgente “Swarming Strings Made Out of Light”. Ma c'è spazio anche per una clamorosa sbandata new wave (“Laxewaag”), per un involontario omaggio a Peter Gabriel più che a Mark Hollis (Talk Tick Talk) e per una puntata finale dalle parti di Bristol (“Sons francais”). Irresistibile.
Chris Forsyth / Dave Harrington / Ryan Jewell / Spencer Zahn – First Flight (Algorithm Free)
Se fiordi e venti gelidi vi hanno messo i brividi, niente di meglio che scaldarsi al sole della California. Poco importa che First Flight sia stato registrato al Nublu di New York: con Chris Forsyth e la sua chitarra di mezzo, si sa che tutte le strade portano ai Dead e allo spirito guida Jerry Garcia.
Non fanno eccezione i quaranta minuti (quinto capitolo della serie Solar Live) fissati su nastro nel settembre del 2019 in compagnia di un trio stellare: il fedelissimo Ryan Jewell alla batteria, Spencer Zahn al basso e Dave Harrington (con Nicolas Jaar nei Darkside) all'altra chitarra. Gente che bazzica abitualmente gli scantinati della Brooklyn più sperimentale, e che non ha certo bisogno di farsi pregare quando c'è da saltare nel vuoto. Senza rete e senza filo; senza mai essere saliti tutti assieme sullo stesso palco e senza una traccia concordata o men che meno una scaletta da seguire. Una jam d'altri tempi, insomma, di quelle palla lunga e pedalare. Fin dall'acidissimo dialogo tra chitarre che introduce la prima delle due lunghe cavalcate che occupano i due lati del vinile. Il crescendo di furore cosmico è orchestrato da progressioni fluide, da feedback e contrappunti, da rabbiose impennate, dall'aggrovigliarsi e districarsi di infinite linee melodiche e cangianti schemi ritmici.
Più malinconica e introversa la seconda facciata, una “Dark Star” per astronauti solitari che alla fine collassa in un roboante assolo di batteria. San Francisco? New York? Fillmore? Nublu? Chi se ne frega: conta solo viaggiare.
Gianmaria Aprile – Rain, Ghosts, One Dog and an Empty Woodland (We Insist!)
Ultima tappa sulla strada del ritorno. Solbiate, a quattro passi da Milano, nel verde di quella Lombardia di mezzo che è una striscia verde tra l'azzurro dei grandi laghi e il grigio della città. È qui che il chitarrista Gianmaria Aprile (grafico, tecnico del suono, produttore e fondatore dei Luminance Ratio e dell'etichetta Fratto9) ha mixato e arrangiato il suo primo disco in solo. Nel grembo materno di un luogo della memoria popolato da presenze, ombre e fantasmi; evocati più che raccontati in mezz'ora di rarefatte meditazioni sul senso dell'appartenere a un pugno di case, a un paesaggio, a una storia che è il risultato dello stratificarsi, dentro e intorno a noi, delle generazioni.
Heimat, direbbero i tedeschi usando un vocabolo intraducibile. La casa, la piccola patria dei film di Edgar Reitz dalla quale si può fuggire solo fisicamente. E alla quale Aprile torna seguendo un percorso dell'anima fatto di elettronica romantica, ambient crepuscolare, corde e legno che tra le nebbie dell'io si fanno improvvisamente riconoscibili (ci sono un guquin cinese e il violoncello di Luca Tilli da qualche parte). Un lessico familiare che rimanda al Jim O'Rourke più astratto e a certi meta-chitarristi alla Alan Licht o alla Loren Connors. Ben arrivati: il viaggio finisce qui.