Per il mese di marzo 2021, il giornale della musica aderisce – insieme a decine di riviste, portali web e radio in Europa – all’iniziativa #womentothefore dello Europe Jazz Network, a favore della progressiva parità di genere nelle musiche creative.
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Quella di Jeanne Lee è senza alcun dubbio tra le voci più importanti di oltre un secolo di jazz e la scarsa attenzione che è spesso stata riservata a questa artista non deve stupire più di tanto, dal momento che tutta la sua vita – come avevo scritto in un lungo articolo uscito nel 2010 per la rivista BlowUp – può essere letta come una «straordinaria esperienza di originalità e urgenza espressiva, assolutamente irriducibile alle categorie cui si è soliti ricorrere, un’esperienza che a partire dal parziale fallimento delle lotte sociali avviate degli afroamericani, diventerà grido inascoltato, voce della differenza, ma anche poesia e danza della quotidianità».
In un mondo come quello delle musiche jazz, in cui la tensione per una consapevolezza sempre maggiore nei confronti del gender balance sta trovando in questi ultimi anni la meritata attenzione, riscoprire una figura come quella della Lee mi sembra assolutamente fondamentale, come artista in cui poesia, canto, danza e impegno civile hanno convissuto in una sorta di modalità mobile capace di intercettare le urgenze sia dell’avanguardia nera che di quella di matrice europea, attraversando quattro decenni di storia del jazz annodandone le domande più scomode con quella voce di contralto, calda e un po’ velata.
Dalla complessa e frammentata discografia della musicista (che era nata a New York nel 1939 e morirà prematuramente a Tijuana nel settembre del 2000) ho scelto per voi dieci dischi da conoscere, ben consapevole che l’arte di Jeanne Lee difficilmente può essere incasellata e che va forse vissuta come un flusso continuo – molte testimonianze appartengono a quella temperie d’avanguardia degli anni Sessanta e Settanta le cui forme lunghe e articolate mal si prestano alla fruizione online – e sperando quindi che possiate recuperare in qualche modo i suoi dischi e immergervi in quella “bellezza” che già Ornette Coleman definiva “una cosa rara”, e che anche la Lee - in un duetto con il trombettista Wadada Leo Smith che qui troverete segnalato – chiama “rarità”, ma che è una costante quasi abbacinante del suo lascito artistico.
Voce che danza, spiritualità che non smette di essere umanità.
Questa era e resta Jeanne Lee.
Buon ascolto.
1. Jeanne Lee & Ran Blake - “Laura”, da The Newest Sound Around (RCA Victor, 1961)
Primo disco per Jeanne Lee con il pianista Ran Blake, suo compagno di studi al Bard College. A partire dal modello di Abbey Lincoln, che negli stessi anni sta dando una netta connotazione politico/protestataria ai testi e alle proprie performance e esplora le potenzialità puramente strumentali, non verbali, della voce, Lee trova una propria dimensione come artista, vocalist, poetessa, senza dovere necessariamente rientrare negli stereotipi della cantante jazz, rivendicando una posizione (sia in quanto "voce/strumento" che in quanto "voce/corpo" che mette in crisi la facile opposizione tra spontaneità e ricerca) che le fornisce una originale fluidità all’interno delle pratiche artistiche afroamericane.
Il pianismo asciutto e spettrale di Blake e il senso del blues nell’inconfondibile pronuncia della Lee sono alla base di questo capolavoro.
2. Marion Brown - “Malipieros Midnight Theatre”, da In Sommehausen (Calig, 1969)
Registrato al Conservatorio di Würzburg nel maggio del 1969, In Sommerhausen del sassofonista Marion Brown è uno dei lavori più emozionanti e sottovalutati di quegli anni e vede Lee intervenire con fascinosa originalità sonora, come nei brandelli di parole, grida e respiri di questa convulsa "Malipieros Midnight Theatre". Uno dei primi efficacissimi esempi di ponte tra la scena europea e quella americana post-Coltrane
3. Archie Shepp - “There Is A Balm In Gilead”, da Blasé (BYG Actuel, 1969)
Nell’estate del 1969 la cantante incrocia il grosso della truppa di musicisti americani giunti a Parigi e compare in quello che diventa uno dei momenti più memorabili della sua storia discografica, Blasé di Archie Shepp. Lee è un elemento indimenticabile di tutto il disco, come in questa resa commovente dello spiritual “There Is a Balm in Gilead”.
Un capolavoro assoluto.
4. Anthony Braxton - “6P (Dedicated to Jeanne Lee)”, da Town Hall 1972 (HatArt, 1972)
Un altro momento fondamentale di quegli anni è la partecipazione al concerto di Anthony Braxton alla Town Hall nel 1972: nella composizione "6P" (di cui è anche dedicataria), Lee è protagonista di una azione sonora a più livelli con gli altri musicisti – tra cui Dave Holland, John Stubblefield e Barry Altschul – alternando la vocalizzazione alle parole e diventando un filo iridescente nel tessuto braxtoniano.
5. Jeanne Lee - “Your Ballad”, da Conspiracy (Earthforms, 1974)
Primo disco interamente a nome Jeanne Lee (una nuova ristampa è in pre-sale qui), qui con il marito Gunter Hampel, ma anche con Sam Rivers, Perry Robinson e Steve McCall tra gli altri.
Anche quando non ci sono le parole, la cantante muove la propria voce nello spazio con un nitore poetico e narrativo sconvolgente, ma è spesso partendo da un testo, che si costruiscono le architetture emotive dei brani, come nel caso di “Your Ballad”, il cui incedere agrodolce avvolge l’ascoltatore con un senso del blues che sembra venire dagli inizi del secolo.
6. Andrew Cyrille, Jeanne Lee & Jimmy Lyons - “Cornbread Picnic”, da Nuba (Black Saint, 1979)
Magico triangolo con il sax contralto del tayloriano Jimmy Lyons e la batteria di Andrew Cyrille, Nuba è un viaggio, un lavoro di spiritualità, creatività e libertà, di potere del suono e della voce.
A caratterizzare il disco è anche il dialogo/contrasto tra la pungente voce del sassofono e quella umana che concilia, stempera: lo si può sentire in questa “Cornbread Picnic”: gli accenti di Lyons sopra gli schiocchi della sansa di Cyrille sono venati di blues, rapprendono frasi concitate, incrociano i soffi e i richiami del canto della Lee.
7. Gunter Hampel & Jeanne Lee - "One Excerpt From The Jamaican Suit", da Oasis (Horo, 1979)
Tante le incisioni, dal 1968 in poi, nei gruppi del marito, il polistrumentista tedesco Gunter Hampel: ne ho scelto una meno celebrata forse, ma più intima, in duo, e incisa per un'etichetta italiana di culto come la Horo.
8. Jeanne Lee & Wadada Leo Smith - “Beauty Is a Rarity”, da A Confederacy of Dances Vol. 1 (Einstein, 1989)
Altra chicca da ripescare: l’antologia A Confederacy Of Dances, Vol. 1, che raccoglie 14 brani dal vivo registrati nel corso di dieci anni della Roulette Concert Series di New York. Oltre a una serie di chicche firmate da immancabili eroi downtown come Bill Frisell, Christian Marclay, John Zorn e compagnia, il disco vale anche per la presenza di questo delizioso duetto tra la voce di Jeanne Lee e la tromba di Wadada Leo Smith, artista che sembra possedere non solo una sensibilità, ma anche un orizzonte emotivo molto vicino a quello della cantante.
9. Jeanne Lee - “Journey To Edenares”, da Natural Affinities (OWL, 1992)
Dal secondo disco a proprio nome, sfaccettato e sempre sorprendente, vi propongo la spirituale “Journey To Edaneres”, che vede la presenza di Hampel e di Amina Claudine Myers. Una meraviglia.
10. Jeanne Lee & Mal Waldron - “You Go To My Head”, da After Hours (OWL, 1994)
Altro duetto imperdibile, quello con Mal Waldron, pianista che per asciuttezza di tocco e intensità espressiva, funziona molto bene assieme alla Lee. Il repertorio è qui quasi esclusivamente tradizionale con standard collaudati tra cui un favorito della cantante come questa “You Go To My Head”. Tutto è ridotto all’osso: Waldron affronta gli accordi come se dovesse scolpirli nello stesso legno dello strumento, la Lee è soffusa e vellutata, il romanticismo sembra prosciugato come in una statua di Giacometti, eppure si percepisce una forza espressiva obliqua, fortissima.